Ha un senso ricercare una base biologica ed innata per la percezione estetica, che prescinda da variazioni storico-culturali? Se la società genera canoni di bellezza, rimane da spiegare perché le persone siano così squisitamente sensibili a questo tipo di modelli e perché siano disposte ad enormi sacrifici - economici, alimentari e di tempo - pur di adeguarvisi.
In un suo celebre studio, lo psicologo David Buss (L'evoluzione del desiderio, 1995), intervistando circa 10.000 persone appartenenti a 37 culture diverse, ha scoperto come per gli uomini di qualunque regione del mondo, sia che appartengano a società di cacciatori-raccoglitori o rurali, sia che appartengano a società comuniste o capitaliste, indipendentemente da religione, istruzione e livello sociale, la bellezza è una delle qualità più importanti nella scelta del partner.
Inoltre, a ben pensarci, la bellezza non è in fondo così arbitraria. Chi ammira il busto della regina Nefertiti d'Egitto (circa 1300 a.C.), conservato al Museo Egizio di Berlino, non ha alcuna difficoltà a riconoscere le fattezze di una bella donna anche sotto le decorazioni di foggia inusuale. Studi di psicologia sperimentale effettuati negli ultimi quindici anni suggeriscono che, così come lo stesso manichino può fare da supporto per una moltitudine di vestiti diversi, così sotto i nostri giudizi estetici si cela un invariante attorno al quale si avvolgono le mode ed i modelli culturali.
L'esistenza di una componente biologica ed innata nella percezione della bellezza, espressione di una natura umana universale, sembra essere sempre più chiara, in modo particolare quando si giudica la bellezza di un viso sconosciuto. Per studiare quanto diverse persone concordino nel giudicare dei visi sconosciuti, alcuni psicologi sperimentali hanno mostrato ad un certo numero di uomini immagini di donne chiedendo d'assegnare un voto ad ogni volto. L'esperimento ha dimostrato una sostanziale correlazione tra i giudizi espressi da soggetti diversi. La rapidità con cui si analizza un viso è stupefacente: è sufficiente vederlo per 15 centesimi di secondo (!) per poter esprimere un giudizio.
Questi dati suggeriscono l'esistenza di un meccanismo neuronale devoluto specificamente all'analisi della bellezza dei visi. Degli esperimenti effettuati da un gruppo di ricercatori giapponesi ha localizzato la sede di questo meccanismo nella corteccia cerebrale frontale, cioè la parte evolutivamente più recente del cervello umano.
Ma perché il viso è così importante per giudicare la bellezza? Forse, la ragione è da ricercarsi nell'organizzazione funzionale del cervello. Alcune regioni del nostro cervello sono deputate specificamente al riconoscimento di volti o all'analisi delle loro espressioni. Ne consegue che la nostra capacità di riconoscere le facce e le loro espressioni è particolarmente sviluppata e tendiamo ad associare l'identità delle persone al loro viso, anche se altre regioni del corpo (gli orecchi, ad esempio) potrebbero fornire un criterio d'identificazione altrettanto valido. Probabilmente, per la medesima ragione la percezione della bellezza di un individuo è influenzata così pesantemente dal suo viso. La capacità di classificare le persone secondo una scala di bellezza, di selezionare cioè un certo tipo di caratteri somatici rispetto ad altri, implica l'esistenza nel nostro cervello di modelli ideali o, per usare le parole del grande etologo Konrad Lorenz, di templates (stampi) con i quali, di volta in volta, vengono confrontate le persone reali.
Questo modello ideale, al quale viene fatto inconsciamente riferimento, è appreso e quindi soggetto a condizionamento culturale oppure è innato? Sicuramente il nostro giudizio estetico è parzialmente condizionato da criteri d'imitazione; ciò è soprattutto evidente nel caso di personaggi pubblici: non di rado vengono giudicati bellissimi uomini e donne, che hanno il solo merito d'essere insistentemente presentati come tali dai mass media. Tuttavia, ci sono buone ragioni per supporre che i criteri in base ai quali si giudica un viso, soprattutto un viso sconosciuto, siano almeno parzialmente innati.
Alcuni scienziati hanno manipolato immagini di visi umani allo scopo d'identificare le caratteristiche che li rendono attraenti e hanno dimostrato come criteri identici vengano applicati in culture tanto diverse quali quella europea e quella giapponese. Ancor più convincente appare l'osservazione che le medesime preferenze estetiche tipiche degli adulti sono presenti già in bimbi di pochi mesi. Un bambino di nove mesi, messo di fronte ad un viso "brutto" e ad un viso "bello", guarderà più a lungo il viso che anche gli adulti giudicano più gradevole. Questa preferenza compare prima che ogni tipo di condizionamento culturale sia possibile ed è, perciò, difficile rifiutare l'idea che sia l'espressione di un meccanismo innato e frutto dell'evoluzione biologica.
È possibile individuare in maniera univoca le caratteristiche geometriche che rendono un viso attraente? Lo studio scientifico della bellezza ha inizio circa un secolo fa, quando Francis Galton, cognato di Charles Darwin, mise a punto un sistema fotografico per creare volti che erano la fusione di più facce reali. Il procedimento in linea di principio non è diverso dal fotografare in successione visi diversi senza far scorrere la pellicola, ottenendo in tal modo una loro sovrapposizione. Quando Galton produsse i suoi primi visi ibridi, rimase stupefatto da due osservazioni. La prima era che questi visi artificiali, nei quali teoricamente tutte le caratteristiche personali si sarebbero dovute perdere, apparivano stranamente reali. Nessuno che fosse all'oscuro del modo con cui erano stati ottenuti questi ritratti avrebbe dubitato che si trattasse del ritratto di una persona in carne ed ossa. La seconda osservazione era che invariabilmente la "fusione" appariva più bella dei singoli visi dai quali era composta; una circostanza che irritò Galton, il quale, fondendo i visi di più criminali sperava di produrre il viso del criminale "tipo". Questa osservazione è stata ripetuta e perfezionata utilizzando le moderne tecniche di computer graphics. Ad un certo numero di soggetti sono stati mostrati visi compositi, che erano la fusione di due, quattro, otto, sedici, trentadue visi reali. Quanto maggiore era il numero dei visi utilizzati per costruire il viso composito, tanto più questo veniva percepito come attraente ed i visi reali utilizzati per creare il composito venivano giudicati quasi sempre meno attraenti della loro fusione.
Sulla base di questi dati è stato proposto che ciò che percepiamo come attraente altro non sia che l'insieme delle caratteristiche medie della popolazione. Il modello ideale sarebbe, cioè, una media: se si potesse effettuare la media di tutti i visi esistenti, si otterrebbe il più bello dei visi possibili! Quest'ipotesi forza, però, i dati sperimentali, i quali indicano semplicemente che effettuando la media di un certo numero di visi si ottiene generalmente un viso più bello dei visi singoli.
La possibilità che, oltre alla media, anche particolari caratteristiche geometriche del viso vengano percepite come attraenti non è in contraddizione con le osservazioni appena descritte. D'altronde, non tutte le caratteristiche "medie" sono necessariamente considerate attraenti: l'altezza è l'esempio più ovvio. L'esistenza di caratteristiche geometriche, che influenzano la bellezza di un viso, è stata dimostrata in maniera diretta: se da una serie di molti visi si selezionano solo quelli giudicati più belli e si fondono, si ottiene un viso che viene preferito alla fusione di tutti i visi del campione. Se la differenza tra questi due visi viene esaltata tramite computer graphics, si ottiene un viso ancor più attraente.
Quali sono queste caratteristiche geometriche associate alla bellezza? La simmetria bilaterale ha ricevuto particolare attenzione. Ogni persona mostra delle asimmetrie più o meno accentuate nel suo volto e nel suo corpo e volti simmetrici generalmente vengono preferiti a volti chiaramente asimmetrici. Questa predilezione per la simmetria non è esclusiva della nostra Specie ed è stato dimostrato, ad esempio, che uccelli il cui piumaggio presenta una macchia sul petto godono di un maggiore successo riproduttivo, riescono ad accoppiarsi con più femmine, se questa macchia viene resa artificialmente simmetrica con un pennarello. Ma tagliando a metà l'immagine del viso di una persona poco attraente e replicando specularmente una metà sull'altro lato in modo da creare un viso perfettamente simmetrico, non si crea magicamente un viso bello: la simmetria non può essere l'unico criterio e, probabilmente, non rappresenta neanche il criterio più importante.
Per identificare le caratteristiche intrinseche che rendono attraente un viso femminile, è stato utilizzato un "algoritmo genetico". Tramite calcolatore sono stati creati dei visi in cui le singole caratteristiche somatiche (distanza tra gli occhi, grandezza del mento e così via) erano generate in maniera casuale ed indipendente. È stato, quindi, chiesto a dei soggetti d'indicare quali tra questi visi sembravano loro più attraenti. Questi visi sono stati combinati tra loro in una seconda "generazione" e sottoposti nuovamente al giudizio dei soggetti, sino a quando non è stato selezionato il viso "ideale". Se confrontato con un viso che rispecchia le proporzioni medie osservate nella popolazione, il viso "ideale" si distingue per un mento piccolo e più vicino alla bocca, per una minore distanza tra gli occhi e la bocca, per una fronte più alta e per labbra più carnose. Queste non sono altro che le tipiche caratteristiche infantili (basta guardare il viso di un bambino di pochi mesi), perciò lo studio fornisce solide basi sperimentali all'osservazione comune che le caratteristiche infantili (das Kindchenschema di Konrad Lorenz) vengono percepite come particolarmente attraenti dagli esseri umani. Inoltre, in questi visi selezionati al calcolatore le caratteristiche femminili risultano accentuate. Uno studio indipendente ha confermato questi dati dimostrando che si può rendere più attraente un viso di donna accentuando le sue caratteristiche femminili.
Perché dovrebbe esistere una preferenza estetica innata per questo tipo di tratti somatici e non per altri? Per trovare una risposta a questa domanda bisogna cercare d'inquadrare le preferenze espresse da osservatori umani nell'ambito più generale dei criteri di scelta del partner osservati nel mondo animale. Questo processo prende il nome di: "Selezione sessuale" ed considerato all'origine di ornamenti bizzarri come la coda del pavone o le corna del cervo, che non sembrano essere direttamente legati alla sopravvivenza (anzi, tutt'altro). La spiegazione di ciò è stata indicata già da Charles Darwin: per qualche ragione, le femmine preferiscono accoppiarsi con maschi che possiedono queste caratteristiche, quindi solo i maschi dotati di ornamenti adeguati lasciano una progenie. Non è chiaro, però, quale vantaggio le femmine traggano dal selezionare questo tipo di tratti. Una teoria (nota come teoria dell'handicap) considera questi ornamenti come indicatori di "alta qualità genetica". Ad esempio, un pavone dalla coda molto grande deve avere una costituzione particolarmente robusta per poter sopravvivere nonostante l'impaccio. Accoppiandosi con quel maschio, le femmine aumentano le possibilità di generare figli in grado di sopravvivere ai predatori. Quest'ipotesi potrebbe spiegare perché, sia negli animali, sia negli uomini, la simmetria è una caratteristica ricercata: costruire un organismo con due metà assolutamente identiche rappresenta certamente un notevole problema biologico; inoltre, partendo dall'ipotesi plausibile che qualunque traccia lasciata da parassiti (piccole cicatrici, irregolarità, macchie della pelle, ecc.) è estremamente improbabile che sia presente in due punti simmetrici nelle due metà del viso, la simmetria potrebbe essere indice di una maggiore resistenza ai parassiti.
Quindi, la simmetria sarebbe, come la coda del pavone, una misura indiretta della "qualità genetica" di un individuo, perciò l'evoluzione avrebbe reso il nostro cervello particolarmente sensibile a questo indizio. Seguendo la medesima linea di pensiero, labbra pronunciate, mento piccolo, sopracciglia sottili ed arcuate che correlano con la concentrazione di ormoni femminili estrogeni, sono diagnostiche di donne fertili. Per contro, una mandibola squadrata e delle sopracciglia folte sono correlate con l'ormone sessuale maschile testosterone e, dunque, indirettamente indicano una maggiore capacità riproduttiva del maschio. In pratica, l'evoluzione avrebbe creato un sistema percettivo, che risponde positivamente ad indizi di fertilità, generando una preferenza involontaria per questi tratti. Quest'ipotesi è sostenuta anche dall'osservazione che, in tutte le culture esaminate, gli uomini preferiscono donne di età compresa tra i 20 ed i 24 anni, età questa che si sovrappone precisamente al picco della fertilità femminile.
Esiste, però, almeno un'ipotesi alternativa. Sia studi effettuati in natura, sia modelli di biologia teorica suggeriscono che la selezione sessuale può essere un motore per la nascita di nuove specie. Anzi, essa è l'unico meccanismo in grado di spiegare la cosiddetta "speciazione simpatrica", ossia la separazione di due specie strettamente imparentate e che condividono il medesimo habitat. In base a quest'ipotesi, gli incroci sarebbero impediti perché i membri delle due specie sorelle si evitano perché, semplicemente, non si trovano attraenti. E' ormai chiaro che, nel momento in cui la nostra Specie Homo sapiens sapiens stava nascendo, erano presenti anche altre specie di ominidi. In modo particolare, abbiamo convissuto con Homo sapiens neanderthalensis fino almeno a 30.000 anni fa. Come si potrebbero definire, in una parola, questi ominidi guardando le ricostruzioni che ne sono state fatte dai paleontologi e che si possono ammirare in musei, libri o riviste? Non credo che ci siano dubbi: brutti! Chi, vedendo la ricostruzione di un uomo di Neanderthal, potrebbe desiderare d'accoppiarsi con un membro di questa specie?
Questa repulsione per i volti neanderthaliani non sembra essere una caratteristica esclusiva dell'uomo contemporaneo. L'analisi del DNA dell'uomo di Neanderthal, resa possibile dalle recenti tecniche di biologia molecolare, ha dimostrato che lo scambio di geni, cioè gli accoppiamenti misti, tra le linee che hanno portato all'uomo moderno ed all'uomo di Neanderthal si è interrotto circa 300.000 anni fa, mentre la nascita dell'uomo moderno risale solo a circa 50.000 anni fa. Grazie, in particolare, alla reazione a catena della polimerasi (PCR), inventata dal grande Kary Mullis, si può oggi amplificare il numero di molecole di DNA e studiare, così, le rare molecole di DNA contenute nei fossili antichi: innanzitutto, si mescolano frammenti di DNA fossile a piccoli frammenti (primers), che hanno la funzione di definire il principio e la fine della sequenza da amplificare; dopo un disaccoppiamento dei filamenti di DNA, i primers si fissano sulle loro sequenze complementari; a questo punto, l'enzima DNA-polimerasi prolunga la catena tra i primers aggiungendovi basi complementari a quelle del semplice filamento che esso duplica. Così, due nuove doppie eliche di DNA si costruiscono a partire dalla doppia elica iniziale, dimodoché ad ogni ciclo d'amplificazione, il numero di copie della sequenza studiata raddoppia.
Nel luglio 1997, un'equipe tedesco-americana diretta da uno dei pionieri nell'analisi del DNA antico, Svante Pääbo, dell'Università di Monaco, ha estratto, amplificato e sequenziato un frammento di DNA mitocondriale (la zona 1 ipervariabile della regione di controllo) della lunghezza di 379 nucleotidi, prelevato dall'omero destro di un fossile di Homo sapiens neanderthalensis, vecchio di almeno a 30.000 anni. Questo gruppo ha condotto tale lavoro in condizioni di stretto controllo, per evitare qualunque contaminazione, principalmente di DNA umano moderno. Gli scienziati hanno amplificato il DNA fossile, con l'aiuto di primers specifici neandertaliani (che non permettono d'amplificare il DNA di uomini moderni) elaborati via via che procedeva il lavoro. La sequenza ottenuta è stata confrontata con quella di 2.051 uomini dei cinque continenti (per 994 linee mitocondriali differenti) e 59 scimpanzé comuni (16 linee mitocondriali).
Il confronto delle sequenze a due a due ha mostrato che il DNA dell'uomo di Neandertal differisce da quello dell'uomo moderno mediamente per 26 sostituzioni (da 20 a 34), mentre le differenze in seno alle popolazioni attuali sono solamente 8 (da 1 a 24) e quelle tra gli uomini moderni e gli scimpanzé sono 55 (da 46 a 67). Inoltre, il confronto delle sequenze, in funzione del continente d'origine delle linee, non mostra alcuna particolarità: quale che sia l'origine geografica degli individui, la media delle sostituzioni è sensibilmente la stessa. Queste osservazioni contraddicono certe ipotesi concernenti l'eventuale prossimità genetica degli europei moderni con i neandertaliani, per quanto questi ultimi abbiano occupato le medesime regioni geografiche. Pääbo e collaboratori hanno costruito un "albero della distanza", radicato con le 16 linee di scimpanzè. Quest'albero mostra una prima separazione del neandertaliano e dell'uomo moderno, poi dicotomie successive, la prima delle quali isola certe linee africane da altre linee che contengono ugualmente africani.
Questo risultato rinforza lo scenario secondo il quale Homo sapiens sapiens sarebbe apparso in Africa e da qui sarebbe migrato, rimpiazzando Homo sapiens neanderthalensis. Assumendo una data di divergenza degli uomini e degli scimpanzè compresa tra quattro e cinque milioni di anni fa, l'età della divergenza tra neandertaliani e uomini moderni è stimata tra 550.000 e 690.000 anni fa, mentre l'età dell'antenato mitocondriale umano sarebbe compresa tra 120.000 e 150.000 anni fa.
Nel 1963, l'anatomista B. Campbell considerava l'uomo di Neandertal come una sottospecie Homo sapiens, ossia Homo sapiens neanderthalensis, una forma geograficamente distinta da Homo sapiens sapiens. In altre parole, le due popolazioni sarebbero una medesima Specie, senza nessuna netta cesura cronologica (erano cioè contemporanei). È interessante notare che certi uomini moderni presentano meno differenze rispetto al neandertaliano, che rispetto ad altri uomini moderni, dal momento che esiste una zona di sovrapposizione tra gli intervalli di variazione (tra 20 e 24 sostituzioni). questo dato è confermato da certi paleoantropologi i quali riconoscono tratti neandertaliani attenuati in certi individui moderni dell'Europa centrale, risalenti a 300.000 anni fa. Questi dati fanno supporre un ruolo non trascurabile dei neandertaliani nell'edificazione del pool genico dell'uomo moderno europeo.
Lo studio di Pääbo e collaboratori conclude che i neandertaliani si sono estinti senza apportare contributi al patrimonio genetico degli uomini moderni e ciò offre supporto all'idea di una specie a sé stante: Homo neanderthalensis. Tuttavia, il confronto di sequenze di DNA non permette d'accertare definitivamente se all'uomo di Neandertal debba essere attribuito lo status di specie o quello di sottospecie. In effetti, un frammento di DNA mitocondriale non rappresenta che un'infima porzione del genoma e, soprattutto, il confronto di sequenze attuali con quelle di un neandertaliano scomparso circa 30.000 anni fa comporta evidentemente una distorsione: le popolazioni umane hanno, infatti, continuato ad evolversi dopo il loro antenato comune.
Sarebbe interessante ottenere altre sequenze di neandertaliani, al fine di valutare la variabilità in seno a questo taxon e di confrontarla con quella dei primi esseri umani moderni: i Cro-Magnon. Secondo la definizione biologica, i membri di una stessa specie sono interfecondi e così pure i loro discendenti. Come accertare, allora, se gli scambi di geni tra le due sottospecie di uomini si siano interrotti per la comparsa di una barriera d'interfecondità? Non esiste alcuna relazione tra la differenza genetica dei due taxa (cioè il numero di mutazioni) e lo statuto tassonomico del gruppo (Specie o Sottospecie).
Recentemente, il confronto completo dei polipeptidi codificati dai geni del DNA mitocondriale ha mostrato che le due sottospecie di orang-utan,Pongo pygmaeus pygmaeus (isola del Borneo) e Pongo pygmaeus abelii (isola di Sumatra), isolati geograficamente ma interfecondi, presentano una divergenza più importante (4,7 %) di quella che sussiste tra lo scimpanzè comune (genere Pan) e l'uomo (genere Homo), che è del 4,4 %. Si può, quindi, immaginare che la separazione dell'uomo moderno dall'uomo di Neanderthal sia avvenuta in base a scelte sessuali.
Gli uomini moderni sarebbero nati perché mostravano caratteristiche del viso leggermente diverse da quelle degli altri uomini, i quali venivano percepiti come meno attraenti. Una volta avviato, il processo di accoppiamento preferenziale su base estetica avrebbe aumentato sempre di più le caratteristiche "umane" rendendo più profonda la separazione. La repulsione per la fronte bassa, per le arcate sopraccigliari sporgenti e per la mascella prognata, in parole povere per ciò che è "scimmiesco", forse non è una coincidenza, ma la chiave stessa della nascita della nostra specie.