sabato 30 aprile 2011

Sex and the Bible

La Bibbia non è il solo testo sacro in cui si parla di sesso. Ce n'è in abbondanza nella tradizione indiana e, perfino, in quella buddista. Ma, forse, in nessun altro testo c'è un simile riconoscimento della sessualità come componente essenziale della natura umana. Il sesso è una forza cosmica, potente, giocosa, piena di humour ma, quando s'incarna negli esseri umani, soffre di tutti i limiti, i difetti, le angosce, le miserie, le piccinerie e le gelosie proprie di tale natura. 
L'aspetto sessuale della Bibbia ha rappresentato un problema per gli esegeti religiosi ed è stato risolto, spesso, ricorrendo all'interpretazione, alla sublimazione, alle allegorie e alle metafore. E' assolutamente legittimo farlo: tutta la comprensione umana avviene per metafore e nessun testo sacro si è prestato, anzi ha incoraggiato, l'interpretazione quanto questo. 
Ma, interpretazione per interpretazione, perchè mai si dovrebbe escludere quella letterale? Una tradizione rabbinica sostiene che qualunque testo della Bibbia vada letto anche in senso letterale. Il "letteralismo", di questi tempi in voga tra i protestanti americani (molto meno tra i cattolici), si fonda sull'argomento che, altrimenti, si perderebbero gli insegnamenti "morali". Ma il problema è che, spesso, la "lettera" non dice quello che le si vorrebbe fare dire. Trovo, francamente, assurdo che la si possa volere usare per polemizzare con l'evoluzionismo di Darwin, così come sarebbe assurdo usarla per sostenere che il Sole gira attorno alla Terra, che la Terra è piatta (c'è un'associazione degli USA che ha come ragione sociale sostenere questa tesi), per risolvere i dubbi sul Big bang cosmico o per dirimere la controversia filosofica sulla Fisica quantistica (anche se fu Einstein a porla nei termini di "Dio gioca a dadi?"). 
Il Cantico dei cantici, per esempio, è stato interpretato dai rabbini come un'allegoria dell'amore di Dio per il suo popolo (Israele); dai cabalisti come uno dei tanti modi di ricorrere ad immagini erotiche per parlare dei rapporti tra gli uomini e la divinità; dai padri della Chiesa come un'anticipazione, nel Vecchio Testamento, del rapporto tra Cristo e la sua Chiesa. Insomma, da testo di estrema carnalità l'hanno fatto diventare un testo di estrema spiritualità! Addirittura, il commentatore arabo Ibn Hazm di Cordova testimoniava: "Ho sentito certi ebrei opinare che questo libro è un'allegoria dell'alchimia..."; che anticipasse davvero i progressi della Biologia molecolare, come Rober Damasio li applica nelle sue ricerche sul cervello e sul come la nostra materia grigia processa le emozioni? Chissà!
La sola Genesi contiene oltre trenta storie incentrate sul sesso, a cominciare da quando Dio crea l'uomo e la donna. Li crea maschio e femmina perchè "non è bene che l'uomo resti da solo", ma anche perchè "divengano una sola carne". Poi, Dio "vide tutto quello che aveva fatto" (compreso il desiderio sessuale) e giudicò che "era molto buono". Sin dall'inizio, quindi, il sesso non è solo procreazione, è anche puro piacere, affetto, desiderio, come dire, ricreazione. 
La Bibbia straripa di desideri sessuali senili, talvolta perfino di incesti: Noè e le figlie, Lot e le figlie, Susanna e i vecchioni e così via. E' l'antico patriarcato in tutto il suo splendore! Se tali comportamenti non sono esplicitamente proibiti dalla Bibbia, altri invece lo sono; colpisce, però, come tali proibizioni siano state, spesso, forzate nell'interpretazione. E' condannato, per esempio, l'adulterio, ma c'è chi osserva che non lo è nei termini di trasgressione sessuale, bensì di violazione dei diritti di proprietà. 
E' condannata anche l'omosessualità, con due riferimenti diretti nel Levitico: "Non giacerai con un maschio come con una donna" (18:22); "Se un uomo giace con un maschio come con una donna, entrambi commettono abominio e devono essere messi a morte" (20:13). Se è per questo, con la morte sono punibili anche: 1) maledire il padre e la madre, 2) avere rapporti sessuali con la moglie del vicino, 3) con la moglie del proprio padre e 4) con la moglie del proprio figlio. Sono punibili con l'esilio: 1) vedere nudi i propri familiari e 2) avere rapporti sessuali durante le mestruazioni della donna. A rileggere letteralmente la storia della distruzione di Sodoma e Gomorra, ci si può accorgere che, contrariamente a quello che siamo abituati a pensare (ahimè!), la punizione divina non riguarda tanto le abitudini sessuali dei sodomiti, quanto piuttosto la violazione dei doveri sacri dell'ospitalità. Lot arriva ad offrire alla folla le proprie figlie, purchè lascino in pace i suoi ospiti. Ma gli aggressori ce l'hanno con gli stranieri (possiamo pensare "immigrati"?), i quali sono due angeli ed è noto che la discussione sul sesso degli angeli è sempre stata piuttosto di lana caprina... La perversità dei sodomiti consiste nell'angariare i viaggiatori (potremmo intendere "impedire il libero commercio"?); "la causa della loro crudeltà è la loro eccessiva ricchezza", spiega per molte pagine il rabbino Louis Ginzberg nel suo ponderoso commento sulle Leggende degli ebrei . 
Intendo dire che si può leggere la Bibbia in molti modi, anche per le parti che parlano di sesso. In comune, con i grandi classici letterari, ha la capacità di dire ed evocare cose diverse ai diversi lettori in epoche diverse. Se sia lecito leggerla come si leggono Omero, Shakespeare, Cervantes, Proust, è argomento di discussione. Ritengo di sì, ma rispetto l'opinione di chi la pensasse diversamente, anzi mi scuso per non averlo detto prima, sin dalle prime righe, per evitare il fastidio di arrivare fin qui. Tra tutte le letture possibili, quella che mi convince di meno è ridurla a una lista di prescrizioni e proibizioni.

Il matematico indiano

Ricordo con chiarezza che, nel corso di una puntata del Maurizio Costanzo Show, l'on. Gianfranco Fini, intervistato a proposito dell'omosessualità, disse (più o meno) testualmente che, se tutti gli uomini fossero o diventassero omosessuali, il genere umano si estinguerebbe nel corso di una generazione. Sono sicuro, oggi, che quello è stato una falsa argomentazione dettata da fini demagogici. In un bel romanzo (David Leavitt, "Il matematico indiano", ed. Arnoldo Mondadori, 2008) ho letto il perchè. 
"Nel 1902, un genetista con il (disgraziato) nome di George Udny Yule sollevò una possibile obiezione nei confronti del mendelismo: se, come suggeriva Mendel, i geni dominanti vincevano sempre sui geni recessivi, allora, con il tempo, una malattia nota come brachidattilia (che porta a un accorciamento delle dita delle mani e dei piedi ed è causata da un allele dominante) sarebbe aumentata tra la popolazione umana, tanto che il rapporto tra gli affetti ed i sani sarebbe divenuto di tre a uno.
La risposta la fornì Hardy in una lettera intitolata "Proporzioni mendeliane in una popolazione mista", e la spedì a “Science”: “Sono riluttante a intromettermi in una discussione su materie di cui non sono un esperto conoscitore e mi sarei aspettato che il dato semplicissimo che vorrei dimostrare fosse familiare ai biologi”. 
Il dato semplicissimo era che, se due alleli A e a sono rispettivamente presenti nei gameti della popolazione nelle percentuali p e q e se gli individui si accoppiano in modo casuale, allora la loro prole sarà monozigote-dominante in proporzione p2, monozigote-recessiva in proporzione q2 ed eterozigote in proporzione 2pq. Ma, allora, nei gameti della prole l'allele A sarà presente in proporzione p2 + pq = p (p + q), e l'allele a in proporzione q2 + pq = q (p + q). Poiché p + q = 1, le due percentuali sono le stesse di quelle di partenza, cioè p e q. 
In altre parole, le percentuali sia dei due alleli, sia dei loro genotipi (cioè degli individui che esibiscono la rispettiva variante del carattere), rimangono costanti di generazione in generazione, indipendentemente dai valori di partenza. 
Nel corso degli anni, ho letto molti articoli di giornale che criticavano quella che i medici chiamano "OMOSESSUALITA'”, lamentandosi della sua prevalenza e predicendo che, se la predisposizione già in crescita avesse continuato a diffondersi, lo stesso genere umano avrebbe rischiato l’estinzione. 
Naturalmente, a mio modesto parere, l’estinzione del genere umano sarebbe immensamente desiderabile e gioverebbe non solo al pianeta, ma anche alle molte altre specie che lo popolano. 
Ciò nondimeno, lo scienziato in me non poteva fare a meno d’impuntarsi di fronte all'errore che stava dietro l'avvertimento. Era lo stesso errore che era stato confutato dalla Legge di Hardy. Infatti, per la stessa ragione per cui, se Udny Yule fosse nel giusto, finiremmo con l'avere più brachidattili che uomini e donne con dita normali, così, se quegli articoli fossero corretti, gli invertiti sarebbero presto più numerosi di uomini e donne normali; la verità, naturalmente, è che il rapporto resterà immutato".

Perché nelle società divise in classi, il popolo tollera che il frutto del suo duro lavoro sia trasferito alle élite?

"...È una domanda cui hanno cercato di rispondere grandi filosofi della politica, da Platone a Marx, e che è posta dai cittadini a ogni elezione. I capi privi di consenso popolare rischiano di essere rovesciati da un sollevamento di massa o, magari, da un altro capo che promette un rapporto più equo tra servizi e tributi. Che cosa deve fare un'élite per avere il consenso popolare e, allo stesso tempo, per mantenere il suo stile di vita? Nei secoli, le soluzioni preferite sono state queste quattro:
1) Disarmare le masse e trasformare l'esercito in una casta elitaria. Questo è molto più facile oggi, perché si può avere il monopolio delle armi tecnologiche prodotte in modo industriale; in passato, chiunque poteva fabbricarsi da sé una lancia o una mazza.
2) Rendere le masse felici ridistribuendo i tributi in modi a queste graditi. È un principio valido anche per i politici del giorno d'oggi.
3) Usare il monopolio della forza per mantenere l'ordine pubblico e calmare la violenza, facendo contenti i bravi cittadini. Questo è un vantaggio delle società centralizzate che è spesso trascurato. Gli antropologi, un tempo, pensavano che le società organizzate in bande e tribù fossero non violente. Studi più approfonditi, condotti per periodi più lunghi, rivelano che l'omicidio è una delle principali cause di morte nelle società tradizionali. 
4) Fabbricare un'ideologia o una religione che giustifica la cleptocrazia. Gli uomini delle bande e delle tribù credevano già nelle entità soprannaturali, ma questo non giustificava l'esistenza dell'autorità o del trasferimento di ricchezze, e non bastava a frenare la violenza. Quando un insieme di credenze fu istituzionalizzato proprio a questo scopo, nacque ciò che chiamiamo religione. I capi hawaiani erano assai tipici in questo, poiché si proclamavano dei, o figli di dei, o per lo meno in stretto contatto con gli. dei. Così potevano dire al popolo che lo servivano facendo da intermediari con il soprannaturale, recitando le formule rituali per ottenere la pioggia, un buon raccolto o una pesca abbondante.
Nelle chefferies (1) troviamo in genere un'ideologia che anticipa le religioni istituzionalizzate, e che serve a rafforzare l'autorità del capo. Il capo può essere un leader politico e religioso allo stesso tempo, o può mantenere una casta di sacerdoti che provvede alla bisogna. Ecco perché una così larga parte dei tributi serve per costruire i templi, che servono sia come luoghi di culto della religione ufficiale sia come segni vi-sibili di potere.
Oltre a fornire questo tipo di giustificazione, la religione porta due importanti vantaggi alle società centralizzate. Innanzitutto, aiuta a risolvere il problema della convivenza pacifica tra estranei, provvedendo a fornire un legame comune che va al di là della parentela. In secondo luogo, fornisce qualche motivazione di carattere idealistico per il sacrificio della vita: così, al prezzo di pochi soldati che muoiono in battaglia, una società diventa più efficiente nelle conquiste e nel resistere agli attacchi esterni".

Da: Jared Diamond, Armi acciaio e malattie, ed. Einaudi (2000)

(1) Chefferies (in francese) o chiefdom (in inglese) sono un tipo di società umana intermedia tra la tribù e lo stato. L'archeologia testimonia che questa forma di società apparve intorno al 5.500 a.C. in Medioriente e prima del 1.000 a.C. in Mesoamerica e sulle Ande. Nel 1492, erano ancora assai diffuse negli USA orientali, nelle zone più fertili del Centro e del Sudamerica, nell'Africa a sud del Sahara e in Polinesia. Entro l'inizio del Novecento sono tutte scomparse, perchè erano insediate su aree assai appetibili e, quindi, sono finite nel mirino di qualche stato.

Valore e funzione del calcio

Quelli che hanno la mia età ricorderanno la fatidica sera di domenica 11 luglio 1982. Alle ore 21.48, si concludeva la partitissima tra le squadre di calcio della nazionale italiana e tedesca allo stadio "Santiago Bernabeu" di Madrid. L'Italia batteva la Germania per 3 a 1: reti di Rossi al 57', di Tardelli al 69', di Altobelli all'81' e di Breitner all'83'. La squadra italiana era per la terza volta campione del mondo di calcio e si portava ai vertici delle statistiche insieme con la squadra brasiliana. Paolo Rossi, con sei goals, risultava il capocannoniere del "Mundial". Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, presente alla finalissima, dichiarava che quello era il giorno più bello della sua presidenza.
In Italia esplodeva un delirio di massa: piazze, strade, vicoli, città intere erano inondati da folle ebbre di gioia, quali mai si erano viste dalla fine della seconda guerra mondiale. L'Italia, tutta l'Italia, impazziva d'entusiasmo per tutta la notte, assumendo la nazionale vittoriosa, diretta da Bearzot, a simbolo di rinascita e di successo sul piano internazionale.
Mentre sul significato di quella notte di delirio rimando i lettori alle riflessioni di grandi giornalisti come Corrado Augias (Panorama, 26 luglio 1982), a me va di riflettere un po' sul valore e sulla funzione del calcio, oggi.
Il calcio, lo sport attualmente più popolare, è inanzitutto uno spettacolo di massa, industrialmente gestito, come dimostrano le cifre degli incassi e gli ingaggi dei grandi giocatori.
Ha una funzione implicitamente ideologica, in quanto serve a distrarre le masse dalle contraddizioni e dalle difficoltà del contesto di vita, a integrarle docilmente nel sistema. In questo senso ha una funzione politica.
Il calcio si fonda su cifre squisitamente tecnologiche e meccanicistiche, nell'accentuare il professionismo e nell'adeguare i giocatori a pedine e a macchine perfette da far funzionare secondo calcoli rigorosi.
Infine, ed è questo l'aspetto più interessante secondo me, il calcio è un rito, come spiega l'antropologoDesmond Morris ne "La tribù del calcio". Il calcio rievoca fatti oscuri delle origini della nostra specie, sedimentati nella memoria inconscia collettiva dell'umanità. "Apparentemente", afferma Morris, "i giocatori delle due squadre sono nemici; in realtà, invece, non tentano di distruggersi a vicenda, ma solo di passare attraverso la difesa avversaria per compiere l'uccisione simbolica, calciando in porta". Così, inconsapevolmente, una partita di calcio surroga una partita di caccia.
Morris, attentissimo osservatore di analogie (vedi i rapporti brillantemente studiati ne "La scimmia nuda" tra l'uomo e i Primati), spiega che la folla dello stadio porta in sè valori ed atteggiamenti delle tribù primitive. Dunque, il calcio è il calcio, un gioco cioè, ma anche un simbolo e veicolo di altro...

Scienza e democrazia

Alla vigilia delle ultime elezioni politiche scambiai una serie di opinioni con un esimio Professore universitario riguardo la democrazia e la scienza. 
Ricordo che tutto partì dalla sua domanda secca: “Lei andrà a votare?”. Risposi di sì e subito capii dallo sguardo del Professore d’avere perso parte della sua stima, poiché già conoscevo le sue idee politiche. Così, con una scusa banale chiesi gentilmente di rimandare la discussione, scrissi la lettera qui riportata integralmente e la imbucai nella cassetta delle lettere dell’esimio interlocutore. Il lato bizzarro della situazione è che il Professore ed io… siamo vicini di casa! 

Egregio professore, 
Le scrivo questa mia con la speranza che voglia degnarsi di leggere le mie idee circa la politica e la società, senza né la fretta né la stanchezza che possono, a volte, guastare la comunicazione verbale…
Qualche settimana fa, come Lei ricorderà, a un certo punto della nostra discussione mi domandò se io avrei votato alle elezioni politiche. Le risposi che l’avrei fatto, perché era un dovere civico sancito dall’art. 48 della Costituzione. Ero a conoscenza che, rispondendo così, avrei perso parte della Sua stima, ma avevo in mente le belle parole dell’On. Piero Calamandrei: “Dietro ad ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi: caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento... morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”. Ecco perché sono andato (ed andrò sempre) a votare. 
Ammetto, altresì, come sia chiaro l’aspetto compromissorio della nostra Carta costituzionale del 1948. Infatti, il riconoscimento del valore dell’individuo si accompagna alla ga¬ranzia dei gruppi organizzati, senza che ne siano prescritte le regole di funzionamento interno; la diffidenza verso il momento pubblico statale, e quindi i meccanismi per neutralizzarne l’azione, si accompagnano alla previsione di compiti di trasformazione sociale ed economica e di strumenti operativi in tal senso. 
E’ così spiegabile come la nostra Costituzione sia stata, di volta in volta, sottoposta ad interpretazioni parziali, che ne sollecita¬vano alcuni aspetti a danno di altri, se¬condo i momenti e le necessità po¬litiche dei diversi soggetti agenti sul pia¬no costituzionale. Si è sottolineata più volte l’esigenza di un’interpretazione complessiva ed equilibrata della Costituzione; recentemente, come sappiamo, quest’esigenza si è espressa auspicando la formazione di una “conven¬zione interpretativa” della Carta, analo¬ga alla “convenzione formativa” della stessa. Staremo a vedere… 
Io credo che la democrazia e le leggi costituzionali, ossia le leggi che reggo¬no il potere, diano all’uomo un posto nella società, che influenza la concezione ch’egli ha del suo posto nella natura e, dunque, la sua visione generale del mondo. Prendiamo l’esempio dell’antica Ellade. Come Lei sa, le culture della Mesopotamia, dell’Egitto e dell’Ellade formano un insieme piuttosto coerente, che sta alla base della cultura (scientifica e non) occidentale. Le discipline “prescientifiche” mesopotamiche ed egizie, però, non rimettevano mai in discussione la visione globale del mondo e dell’uomo data dal mito. I tentativi ellenici, invece, sia che interessassero un ambito preciso, sia che fossero filosofie più generali, avevano sempre qualcosa a che vedere con il posto dell’uomo nel mondo. 
Sono assolutamente convinto che questa differenza fosse causata dal fatto che il posto dell’uomo nella società ellenica non era confrontabile a quello ch’egli aveva in Mesopotamia ed in Egitto. I Mesopotamici e gli Egizi, infatti, non conoscevano altro che le leggi con le quali il potere regge la società (sempre che tale potere non fosse arbitrario tout-court). La Democrazia, invece, nel dare alla società le sue leggi proprie, può far propendere per la ricerca nella Natura di un ordine che le sia proprio, un ordine “naturale”, appunto, accessibile all’uomo e non più divino. 
Per comprendere come il pensiero scientifico abbia potuto costituirsi in Occidente, bisogna aggiungere ad attività prescientifiche come il mito, la magia e la tecnica, anche il diritto e l’organizzazione della società. Infatti, similmente in questo al mito ma al contrario della tecnica, la scienza è dipendente dalla concezione che l’uomo si fa del mondo; la quale dipende, spesso, dalla concezione ch’egli si fa della società. Allora, diciamo pure, con Churchill: “La Democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora”. 
Il problema pratico e non aprioristico è, semmai, che il rispetto da parte di tutti della decisione collettiva che raccoglie il maggior consenso (l’essenza della Democrazia) ha biso¬gno di un impianto concreto per essere realizzato. Spesso, però, le regole studiate per tale scopo possono determinare risultati in forte contrasto tra loro (pur se, teoricamente, sempre “de-mocratici”). L’esempio più clamoroso, e probabilmente più noto, è l’a¬dozione del sistema elettorale maggioritario, in contrapposizio¬ne a quello proporzionale; a tale riguardo, non può non far riflettere il fatto che in Gran Bretagna un partito politico, forte di circa il 30 % dei consensi, a causa del meccanismo elettorale prettamente maggioritario in uso in quel Paese, non riesce a far eleggere un suo parlamentare dal 1950… Una soluzione ci sareb¬be: invece d’essere costretti a votare per un “sì” o un “no” secco, si dovrebbe avere la possibilità d’esprimere il proprio parere, in termini percentuali, in base ad una scala di attribuzioni analoga alla seguente: 
0%: “no” netto 
dall’1% al 49%: propensione al “no”, con riserve più o me¬no forti; 
50%: totale incertezza tra “sì” e “no”; 
dal 51% al 99%: propensione al “sì”, con riserve più o me¬no forti; 
100%: “sì” netto. 
Se la somma dei valori percentuali (divisa per 100) supera la metà del numero dei presenti, la proposta è approvata, altri¬menti non lo è. È curioso osservare come la categoria del dubbio, così esaltata da schiere di filosofi da Socrate in poi, non sia mai stata adeguatamente considerata nei momenti decisionali, lasciando il campo (in nome della Democrazia?) ad una malsicura certezza. 
Un'altra difficoltà tecnica della democrazia è illustrata dal paradosso di Condorcet, che è relativo ai problemi che sorgono quando, fra tre alternative possibili (che riscuotono una preferenza pressoché uguale), non si riesce a determinare tecnicamente la scelta da adottare. Anche se gli storici non dicono nulla a riguardo, ritengo plausibile ipotizzare che, per elaborare il proprio paradosso, Condorcet si sia ispirato ad uno dei più laceranti dilemmi del primo periodo della Rivoluzione francese: la sorte che doveva toccare al re Luigi XVI ed alla sua consorte Maria Antonietta d’Asburgo Lorena. I fatti, in linea di massima, dovrebbero essersi svolti come qui di seguito riferisco. 
Il neonato Comitato di salute pubblica, formato da Robespierre, Marat e Danton, doveva sottoporre alla Convenzione Nazio¬nale la sua proposta relativa alla condanna della famiglia reale. Vi erano tre alternative, ciascuna caldeggiata da uno dei mem¬bri del Comitato: Robespierre propendeva per l’esecuzione sia del Re che della Regina; Marat voleva la ghigliottina solo per il Re; Danton riteneva più giusto non applicare la pena di morte. La ricerca di una soluzione fu lunga e faticosa, in quanto cia¬scuno dei tre aveva una propria ulteriore preferenza subordina¬ta. In particolare: Robespierre avrebbe rinunciato alla sua tesi, purché fosse condannato almeno il Re; Marat, che temeva fortemente le reazioni dell’Austria, voleva assolutamente salvare la vita alla Regina ed era, perciò, dispo¬sto anche a salvare il Re; Danton non amava le soluzioni di compromesso, e quindi, se si fosse deciso di ricorrere alla pena di morte, avrebbe rite¬nuto più giusto applicarla sia al Re che alla Regina. Come è noto, il 17 gennaio 1793 fu sottoposta alla Convenzio¬ne Nazionale la proposta di condannare a morte solo il Re (quella che stava più a cuore a Marat); l’assemblea si pronunciò a favore e la condanna venne eseguita quattro giorni dopo. Fu Robespierre che rivelò a Condorcet i particolari della di¬scussione, che portò a quella storica scelta. 
Per superare lo stallo iniziale, Marat propose di votare subi¬to tra le due proposte più distanti, ossia: E) giustiziare entrambi i reali; N) non giustiziare né l’uno, né l’altra. La proposta che avrebbe vinto sarebbe stata poi messa a con¬fronto con la terza, ovvero: R) giustiziare solo il Re. Danton e Marat votarono per la non applicazione della con¬danna completa e Robespierre rimase in minoranza, unico a votare per l’esecuzione di entrambi; tale decisione venne, quindi, scartata. Ma quando si trattò di scegliere tra la condanna del Re e la non applicazione della pena di morte, fu Danton a rimanere in minoranza. Infatti, la decisione di giustiziare il Re rappresentava la prima scelta per Marat e la scelta subordinata per Robespierre (la cui prima scelta era stata scartata). 
Condorcet spiegò a Robespierre il marchingegno con cui Marat aveva pilotato la decisione. Tre alternative si presenta¬vano, per ciascuno dei tre membri del Comitato di salute pub¬blica, in un preciso ordine di preferenza, ciclico. 
(Per maggiore praticità, nel seguito utilizzerò le seguenti ab¬breviazioni: E = giustiziare Entrambi; R = giusti¬ziare solo il Re; N = non giustiziare Nessuno.) 
Robespierre: 1) E, 2) R, 3) N. 
Danton: 1) N, 2) E, 3) R. 
Marat: 1) R, 2) N, 3) E. 
Questa graduatoria tra le alternative, sulla base degli interventi effettuati nel corso della discussione, si poteva supporre nota a tutti. Ora, qualunque fosse stata l’alternativa lasciata per ultima, essa avrebbe sicuramente vinto. Se, infatti, Robespierre avesse proposto, ad esempio, di sce¬gliere prima tra R o N, la sua preferenza avrebbe sicuramente vinto. Infatti, per N avrebbe votato solo Danton, mentre Marat avrebbe votato R (prima scelta), così come Robespierre (seconda scelta). Alla resa dei conti finale, il voto di Danton, eliminata la sua alternativa prefe¬rita, sarebbe confluito su E, aggiungendosi al voto di Robespierre e lasciando il solo Marat a votare per R. Ugualmente, se si fosse scelto prima tra E ed R, alla fine avrebbe ottenuto la maggioranza N. 
Il paradosso di Condorcet mostra, quindi, chiaramente come l’esito di una votazione possa essere pesantemente influenzato dalla modalità con cui la stessa viene organizzata. Quando, in presenza di tre mozioni contrapposte e d’incerto esito, la presidenza di un’assemblea propone, con le più svariate argomenta¬zioni, di mettere prima ai voti due di esse, possiamo essere certi che è la terza quella preferita. D’altra parte mettere ai voti tre mozioni contemporanea¬mente e considerare approvata quella che riporta più voti ri¬schia, in alcune occasioni, di snaturare ancora più profonda¬mente la volontà dell’assemblea. Supponiamo, infatti, che su 100 elettori 40 siano favorevoli al mantenimento di un documento e gli altri 60 favorevoli ad un emendamento (E1). L’aggiunta di un ulteriore emendamento (E2), con ogni probabilità, dividerebbe il fronte dei contrari al testo presentato e potrebbe portare ad un risultato del tipo: 40 favorevoli al testo, 35 all’emendamento E1, 25 all’emendamen¬to E2, con il risultato che, nonostante la volontà della maggio¬ranza sia di emendare il testo, questo rimarrebbe in vigore. Non è, in queste situazioni, peregrino il sospetto che l’emen¬damento aggiuntivo possa venire proposto addirittura da un fautore del mantenimento del testo che, per salvare le apparen¬ze e non scoprire le sue carte, poi voterebbe l’emendamento stesso, levando un voto alla sua parte, ma consentendo quella divisione tra gli oppositori che permette, comunque, la vittoria altrimenti impossibile per la sua fazione. 
Il Teorema dell'impossibilità di Arrow, formulato nel 1951, ha lo scopo di trovare un sistema di votazione che eviti il paradosso di Condorcet e consenta, dunque, di preservare l'ordine lineare delle preferenze (se A vince su B e B vince su C, allora A deve vincere su C). Il teorema di Arrow afferma che, se il gruppo di cittadini votanti comprende almeno due individui e l'insieme delle alternative possibili comprende almeno tre opzioni, risulta impossibile la Democrazia rappresentativa basata sui principi che, solitamente, sono considerati alla base della Democrazia stessa e cioè: uguaglianza dei voti, univocità della scelta e certezza del risultato. 
Tuttavia, prendendo spunto dal teorema di Arrow, Amartya Sen dimostra che, in uno Stato che voglia far rispettare contemporaneamente l’efficienza liberista e la libertà (uno spazio in cui le sole preferenze dell'individuo determinano la scelta) possono crearsi delle situazioni in cui un solo individuo (il dittatore) ha garanzia dei propri diritti. Sen dimostra, dunque, matematicamente l'impossibilità del liberismo basato sull'efficienza. Aggiungo, però che Sen ha ricevuto il Nobel proprio per aver sviluppato una teoria sociale scevra dal suo stesso paradosso. 
Ancora una volta dobbiamo riconoscere il valore della logica e difendere quei sistemi costituzionali che permettono al cittadino d’esprimere la sua logica parlando liberamente, sia in privato sia in pubblico. 
In conclusione, egregio professore, spero di non averLa troppo annoiata e colgo l’occasione per porgerLe i miei più distinti e rispettosi saluti. 

giovedì 28 aprile 2011

Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace... o no?

Ha un senso ricercare una base biologica ed innata per la percezione estetica, che prescinda da variazioni storico-culturali? Se la società genera canoni di bellezza, rimane da spiegare perché le persone siano così squisitamente sensibili a questo tipo di modelli  e perché siano disposte ad enormi sacrifici - economici, alimentari e di tempo - pur di adeguarvisi.
In un suo celebre studio, lo psicologo David  Buss (L'evoluzione del desiderio, 1995), intervistando circa 10.000 persone appartenenti a 37 culture diverse, ha scoperto come per gli uomini di qualunque regione del mondo, sia che appartengano a società di cacciatori-raccoglitori o rurali, sia che appartengano a società comuniste o capitaliste, indipendentemente da religione, istruzione e livello sociale, la bellezza è una delle qualità più importanti nella scelta del partner.
Inoltre, a ben pensarci, la bellezza non è in fondo così arbitraria. Chi ammira il busto della regina Nefertiti d'Egitto (circa 1300 a.C.), conservato al Museo Egizio di Berlino, non ha alcuna difficoltà a riconoscere le fattezze di una bella donna anche sotto le decorazioni di foggia inusuale. Studi di psicologia sperimentale effettuati negli ultimi quindici anni suggeriscono che, così come lo stesso manichino può fare da supporto per una moltitudine di vestiti diversi, così sotto i nostri giudizi estetici si cela un invariante attorno al quale si avvolgono le mode ed i modelli  culturali.
L'esistenza di una componente biologica ed innata nella percezione della bellezza, espressione di una natura umana universale, sembra essere sempre più chiara, in modo particolare quando si giudica la bellezza di un viso sconosciuto. Per studiare quanto diverse persone concordino nel giudicare dei visi sconosciuti, alcuni psicologi sperimentali hanno mostrato ad un certo numero di uomini immagini di donne chiedendo d'assegnare un voto ad ogni volto. L'esperimento ha dimostrato una sostanziale correlazione tra i giudizi espressi da soggetti diversi. La rapidità con cui si analizza un viso è stupefacente: è sufficiente vederlo per 15 centesimi di secondo (!) per poter esprimere un giudizio.
Questi dati suggeriscono l'esistenza di un meccanismo neuronale devoluto specificamente all'analisi della bellezza dei visi. Degli esperimenti effettuati da un gruppo di ricercatori giapponesi ha localizzato la sede di questo meccanismo nella corteccia cerebrale frontale, cioè la parte evolutivamente più recente del cervello umano.
Ma perché il viso è così importante per giudicare la bellezza? Forse, la ragione è da ricercarsi nell'organizzazione funzionale del cervello. Alcune regioni del  nostro cervello sono deputate specificamente al riconoscimento di volti o all'analisi delle loro espressioni. Ne consegue che la nostra capacità di riconoscere le facce e le loro espressioni è particolarmente sviluppata e tendiamo ad associare l'identità delle persone al loro viso, anche se altre regioni del corpo (gli orecchi, ad esempio) potrebbero fornire un criterio d'identificazione altrettanto valido. Probabilmente, per la medesima ragione la percezione della bellezza di un individuo è influenzata così pesantemente dal suo viso. La capacità di classificare le persone secondo una scala  di  bellezza, di selezionare cioè un certo tipo di caratteri somatici rispetto ad altri, implica l'esistenza nel nostro cervello di modelli  ideali o, per usare le parole del grande etologo Konrad  Lorenz, di templates (stampi) con i quali, di volta in volta, vengono confrontate le persone reali.
Questo modello ideale, al quale viene fatto inconsciamente riferimento, è appreso e quindi soggetto a condizionamento culturale oppure è innato? Sicuramente il nostro giudizio estetico è parzialmente condizionato da criteri d'imitazione; ciò è soprattutto evidente nel caso di personaggi pubblici: non di rado vengono giudicati bellissimi uomini e donne, che hanno il solo merito d'essere insistentemente presentati come tali dai mass media. Tuttavia, ci sono buone ragioni per supporre che i criteri in base ai quali si giudica un viso, soprattutto un viso sconosciuto, siano almeno parzialmente innati.
Alcuni scienziati hanno manipolato immagini di visi umani allo scopo d'identificare le caratteristiche che li rendono attraenti e hanno dimostrato come criteri identici vengano applicati in culture tanto diverse quali quella europea e quella giapponese. Ancor più convincente appare l'osservazione che le medesime preferenze estetiche tipiche degli adulti sono presenti già in bimbi di pochi mesi. Un bambino di nove mesi, messo di fronte ad un viso "brutto" e ad un viso "bello", guarderà più a lungo il viso che anche gli adulti giudicano più gradevole. Questa preferenza compare prima che ogni tipo di condizionamento culturale sia possibile ed è, perciò, difficile rifiutare l'idea che sia l'espressione di un meccanismo innato e frutto dell'evoluzione biologica.
È possibile individuare in maniera univoca le caratteristiche geometriche che rendono un viso attraente? Lo studio scientifico della bellezza ha inizio circa un secolo fa, quando Francis Galton, cognato di Charles Darwin, mise a punto un sistema fotografico per creare volti che erano la fusione di più facce reali. Il procedimento in linea di principio non è diverso dal fotografare in successione visi diversi senza far scorrere la pellicola, ottenendo in tal modo una loro sovrapposizione. Quando Galton produsse i suoi primi visi ibridi, rimase stupefatto da due osservazioni. La prima era che questi visi artificiali, nei quali teoricamente tutte le caratteristiche personali si sarebbero dovute perdere, apparivano stranamente reali. Nessuno che fosse all'oscuro del modo con cui erano stati ottenuti questi ritratti avrebbe dubitato che si trattasse del ritratto di una persona in carne ed ossa. La seconda osservazione era che invariabilmente la "fusione" appariva più bella dei singoli visi dai quali era composta; una circostanza che irritò Galton, il quale, fondendo i visi di più criminali sperava di produrre il viso del criminale "tipo". Questa osservazione è stata ripetuta e perfezionata utilizzando le moderne tecniche di computer graphics. Ad un certo numero di soggetti sono stati mostrati visi compositi, che erano la fusione di due, quattro, otto, sedici, trentadue visi reali. Quanto maggiore era il  numero dei visi utilizzati per costruire il viso composito, tanto più questo veniva percepito come attraente ed i visi reali utilizzati per creare il composito venivano giudicati quasi sempre meno attraenti della loro fusione.
Sulla base di questi dati è stato proposto che ciò che percepiamo come attraente altro non sia che l'insieme delle caratteristiche medie della popolazione. Il modello ideale sarebbe, cioè, una media: se si potesse effettuare la media di tutti i visi esistenti, si otterrebbe il più bello dei visi possibili! Quest'ipotesi forza, però, i dati sperimentali, i quali indicano semplicemente che effettuando la media di un certo numero di visi si ottiene generalmente un viso più bello dei visi singoli.
La possibilità che, oltre alla media, anche particolari caratteristiche geometriche del viso vengano percepite come attraenti non è in contraddizione con le osservazioni appena descritte. D'altronde, non tutte le caratteristiche "medie" sono necessariamente considerate attraenti: l'altezza è l'esempio più ovvio. L'esistenza di caratteristiche geometriche, che influenzano la bellezza di un viso, è stata dimostrata in maniera diretta: se da una serie di molti visi si selezionano solo quelli giudicati più belli e si fondono, si ottiene un viso che viene preferito alla fusione di tutti i visi del campione.  Se la differenza tra questi due visi viene esaltata tramite computer graphics, si ottiene un viso ancor più attraente.
Quali sono queste caratteristiche geometriche  associate alla  bellezza?  La simmetria bilaterale ha ricevuto particolare attenzione. Ogni persona mostra delle asimmetrie più o meno accentuate nel suo volto e nel suo corpo e volti simmetrici generalmente vengono preferiti a volti chiaramente asimmetrici. Questa predilezione per la simmetria non è esclusiva della nostra Specie ed è stato dimostrato, ad esempio, che uccelli il cui piumaggio presenta una macchia sul petto godono di un maggiore successo riproduttivo, riescono ad accoppiarsi con più femmine, se questa macchia viene resa artificialmente simmetrica con un pennarello. Ma tagliando a metà l'immagine del viso di una persona poco attraente e replicando specularmente una metà sull'altro lato in modo da creare un viso perfettamente simmetrico, non si crea magicamente un viso bello: la simmetria non può essere l'unico criterio e, probabilmente, non rappresenta neanche il criterio più importante.
Per identificare le caratteristiche intrinseche che rendono attraente un viso femminile, è stato utilizzato un "algoritmo genetico". Tramite calcolatore sono stati creati dei visi in cui le singole caratteristiche somatiche (distanza tra gli occhi, grandezza del mento e così via) erano generate in maniera casuale ed indipendente. È stato, quindi, chiesto a dei soggetti d'indicare quali tra questi visi sembravano loro più attraenti. Questi visi sono stati combinati tra loro in una seconda "generazione" e sottoposti nuovamente al giudizio dei soggetti, sino a quando non è stato selezionato il viso "ideale". Se confrontato con un viso che rispecchia le proporzioni medie osservate nella popolazione, il viso "ideale" si distingue per un mento piccolo e più vicino alla bocca, per una minore distanza tra gli occhi e la bocca, per una fronte più alta e per labbra più carnose. Queste non sono altro che le tipiche caratteristiche infantili (basta guardare il viso di un bambino di pochi mesi), perciò lo studio fornisce solide basi sperimentali all'osservazione comune che le caratteristiche infantili (das Kindchenschema di Konrad Lorenz) vengono percepite come particolarmente attraenti dagli esseri umani. Inoltre, in questi visi selezionati al calcolatore le caratteristiche femminili risultano accentuate. Uno studio indipendente ha confermato questi dati dimostrando che si può rendere più attraente un viso di donna accentuando le sue caratteristiche femminili.
Perché dovrebbe esistere una preferenza estetica innata per questo tipo di  tratti somatici e non per altri? Per trovare una risposta a questa domanda bisogna cercare d'inquadrare le preferenze espresse da osservatori umani nell'ambito più generale dei criteri di scelta del partner osservati nel mondo animale. Questo processo prende il  nome di: "Selezione sessuale" ed considerato all'origine di ornamenti bizzarri come la coda del pavone o le corna del cervo, che non sembrano essere direttamente legati alla sopravvivenza (anzi, tutt'altro). La spiegazione di ciò è stata indicata già da Charles Darwin: per qualche ragione, le femmine preferiscono accoppiarsi con maschi che possiedono queste caratteristiche, quindi solo i maschi dotati di ornamenti adeguati lasciano una progenie. Non è chiaro, però, quale vantaggio le femmine traggano dal selezionare questo tipo di tratti. Una teoria (nota come teoria dell'handicap) considera questi ornamenti come indicatori di "alta qualità genetica". Ad esempio, un pavone dalla coda molto grande deve avere una costituzione particolarmente robusta per poter sopravvivere nonostante l'impaccio. Accoppiandosi con quel maschio, le femmine aumentano le possibilità di generare figli in grado di sopravvivere ai predatori. Quest'ipotesi potrebbe spiegare perché, sia negli animali, sia negli uomini, la simmetria è una caratteristica ricercata: costruire un organismo con due metà assolutamente identiche rappresenta certamente un notevole problema biologico; inoltre, partendo dall'ipotesi plausibile che qualunque traccia lasciata da parassiti (piccole cicatrici, irregolarità, macchie della pelle, ecc.) è estremamente improbabile che sia presente in due punti simmetrici nelle due metà del viso, la simmetria potrebbe essere indice di una maggiore resistenza ai parassiti.
Quindi, la simmetria sarebbe, come la coda del pavone, una misura indiretta della "qualità genetica" di un individuo, perciò l'evoluzione avrebbe reso il nostro cervello particolarmente sensibile a questo indizio. Seguendo la medesima linea di pensiero, labbra pronunciate, mento piccolo, sopracciglia sottili ed arcuate che correlano con la concentrazione di ormoni femminili estrogeni, sono diagnostiche di donne fertili. Per contro, una mandibola squadrata e delle sopracciglia folte sono correlate con l'ormone sessuale maschile testosterone e, dunque, indirettamente indicano una maggiore capacità riproduttiva del maschio. In pratica, l'evoluzione avrebbe creato un sistema percettivo, che risponde positivamente ad indizi di fertilità, generando una preferenza involontaria per questi tratti. Quest'ipotesi è sostenuta anche dall'osservazione che, in tutte le culture esaminate, gli uomini preferiscono donne di età compresa tra i 20 ed i 24 anni, età questa che si sovrappone precisamente al picco della fertilità femminile.
Esiste, però, almeno un'ipotesi alternativa. Sia studi effettuati in natura, sia modelli di biologia teorica suggeriscono che la selezione sessuale può essere un motore per la nascita di nuove specie. Anzi, essa è l'unico meccanismo in grado di spiegare la cosiddetta "speciazione simpatrica", ossia la  separazione di due specie strettamente imparentate e che condividono il medesimo habitat. In base a quest'ipotesi, gli incroci sarebbero impediti perché i membri delle due specie sorelle si evitano perché, semplicemente, non si trovano attraenti. E' ormai chiaro che, nel momento in cui la nostra Specie Homo sapiens sapiens stava nascendo, erano presenti anche altre specie di ominidi. In modo particolare, abbiamo convissuto con Homo sapiens neanderthalensis fino almeno a 30.000 anni fa. Come si potrebbero definire, in una parola, questi ominidi guardando le ricostruzioni che ne sono state fatte dai paleontologi e che si possono ammirare in musei, libri o riviste? Non credo che ci siano dubbi: brutti! Chi, vedendo la ricostruzione di un uomo di Neanderthal, potrebbe desiderare d'accoppiarsi con un membro di questa specie?
Questa repulsione per i volti neanderthaliani non sembra essere  una caratteristica esclusiva dell'uomo contemporaneo. L'analisi del DNA dell'uomo di Neanderthal, resa possibile dalle recenti tecniche di biologia molecolare, ha dimostrato che lo scambio di geni, cioè gli accoppiamenti misti, tra le linee che hanno portato all'uomo moderno ed all'uomo di Neanderthal si è interrotto circa 300.000 anni fa, mentre la nascita dell'uomo moderno risale solo a circa 50.000 anni fa. Grazie, in particolare, alla reazione a catena della polimerasi (PCR), inventata dal grande Kary Mullis, si può oggi amplificare il numero di molecole di DNA e studiare, così, le rare molecole di DNA contenute nei fossili antichi: innanzitutto, si mescolano frammenti di DNA fossile a piccoli frammenti (primers), che hanno la funzione di definire il principio e la fine della sequenza da amplificare; dopo un disaccoppiamento dei filamenti di DNA, i primers si fissano sulle loro sequenze complementari; a questo punto, l'enzima DNA-polimerasi prolunga la catena tra i primers aggiungendovi basi complementari a quelle del semplice filamento che esso duplica. Così, due nuove doppie eliche di DNA si costruiscono a partire dalla doppia elica iniziale, dimodoché ad ogni ciclo d'amplificazione, il numero di  copie della sequenza studiata raddoppia.
Nel luglio 1997, un'equipe  tedesco-americana diretta da uno dei pionieri nell'analisi del DNA antico, Svante Pääbo, dell'Università di Monaco, ha estratto, amplificato e sequenziato un frammento di DNA mitocondriale (la zona 1 ipervariabile della regione di  controllo) della lunghezza di 379 nucleotidi, prelevato dall'omero destro di un fossile di Homo sapiens neanderthalensis, vecchio di almeno a 30.000 anni. Questo gruppo ha condotto tale lavoro in condizioni di stretto controllo, per evitare qualunque contaminazione, principalmente di DNA umano moderno. Gli scienziati hanno amplificato il DNA fossile, con l'aiuto di primers specifici neandertaliani (che non permettono d'amplificare il DNA di uomini moderni) elaborati via via che procedeva il lavoro. La sequenza ottenuta è stata confrontata con quella di 2.051 uomini dei cinque continenti (per 994 linee mitocondriali differenti) e 59 scimpanzé comuni (16 linee mitocondriali).
Il confronto delle sequenze a due a due ha mostrato che il DNA dell'uomo di Neandertal differisce da quello dell'uomo moderno mediamente per 26 sostituzioni (da 20 a 34), mentre le differenze in seno alle popolazioni attuali sono solamente 8 (da 1 a 24) e quelle tra gli uomini moderni e gli scimpanzé sono 55 (da 46 a 67). Inoltre, il confronto delle sequenze, in funzione del continente d'origine delle linee, non mostra alcuna particolarità: quale che sia l'origine geografica degli individui, la media delle sostituzioni è sensibilmente la stessa. Queste osservazioni contraddicono certe ipotesi concernenti l'eventuale prossimità genetica degli europei moderni con i neandertaliani, per quanto questi ultimi abbiano occupato le medesime regioni geografiche. Pääbo e collaboratori hanno costruito un "albero della distanza", radicato con le 16 linee di scimpanzè. Quest'albero mostra una prima separazione del neandertaliano e dell'uomo moderno, poi dicotomie successive, la prima delle quali  isola certe linee africane da altre  linee che contengono ugualmente africani.
Questo risultato rinforza lo scenario secondo il quale Homo sapiens sapiens sarebbe apparso in Africa e da qui sarebbe migrato, rimpiazzando Homo sapiens neanderthalensis. Assumendo una data di divergenza degli uomini e degli scimpanzè compresa tra quattro e cinque milioni di anni fa, l'età della divergenza tra neandertaliani e uomini moderni è stimata tra 550.000 e 690.000 anni fa, mentre l'età dell'antenato mitocondriale umano sarebbe compresa tra 120.000 e 150.000 anni fa.
Nel 1963, l'anatomista B. Campbell considerava l'uomo di Neandertal come una sottospecie Homo sapiens, ossia Homo sapiens neanderthalensis, una forma geograficamente distinta da Homo sapiens sapiens. In altre parole, le due popolazioni sarebbero una medesima Specie, senza nessuna netta cesura cronologica (erano cioè contemporanei). È interessante notare che certi uomini moderni presentano meno differenze rispetto al neandertaliano, che rispetto ad altri uomini moderni, dal momento che esiste una zona di sovrapposizione tra gli intervalli di variazione (tra 20 e 24  sostituzioni). questo dato è confermato da certi paleoantropologi i quali riconoscono tratti neandertaliani attenuati in certi individui moderni dell'Europa centrale, risalenti a 300.000 anni fa. Questi dati fanno supporre un ruolo non trascurabile dei neandertaliani nell'edificazione del pool genico dell'uomo moderno europeo.
Lo studio di Pääbo e collaboratori conclude che i neandertaliani si sono estinti senza apportare contributi al patrimonio genetico degli uomini moderni e ciò offre supporto all'idea di una specie a sé stante: Homo neanderthalensis. Tuttavia, il confronto di sequenze di DNA non permette d'accertare definitivamente se all'uomo di Neandertal debba essere attribuito lo status di specie o quello di sottospecie. In effetti, un frammento di DNA mitocondriale non rappresenta che un'infima porzione del genoma e, soprattutto, il confronto di sequenze attuali con quelle di un neandertaliano scomparso circa 30.000 anni fa comporta evidentemente una distorsione: le popolazioni umane hanno, infatti, continuato ad evolversi dopo il loro antenato comune.
Sarebbe interessante ottenere altre sequenze di neandertaliani, al fine di valutare la variabilità in seno a questo taxon e di confrontarla con quella dei primi esseri umani moderni: i Cro-Magnon. Secondo la definizione biologica, i membri di una stessa specie sono interfecondi e così pure i loro discendenti. Come accertare, allora, se gli scambi di geni tra le due sottospecie di uomini si siano interrotti per la comparsa di una barriera d'interfecondità? Non esiste alcuna relazione tra la differenza genetica dei due taxa (cioè il numero di mutazioni) e lo statuto tassonomico del gruppo (Specie o Sottospecie).
Recentemente, il confronto completo dei polipeptidi codificati dai geni del DNA mitocondriale ha mostrato che le due sottospecie di orang-utan,Pongo pygmaeus pygmaeus (isola del Borneo) e Pongo pygmaeus abelii (isola di Sumatra), isolati geograficamente ma interfecondi, presentano una divergenza più importante (4,7 %) di quella che sussiste tra lo scimpanzè comune (genere Pan) e l'uomo (genere Homo), che è del 4,4 %. Si può, quindi, immaginare che la separazione dell'uomo moderno dall'uomo di Neanderthal sia avvenuta in base a scelte sessuali.
Gli uomini moderni sarebbero nati perché mostravano caratteristiche del viso leggermente diverse da quelle degli altri uomini, i quali venivano percepiti come meno attraenti. Una volta avviato, il processo di accoppiamento preferenziale su base estetica avrebbe aumentato sempre di più le caratteristiche "umane" rendendo più profonda la separazione. La repulsione per la fronte bassa, per le arcate sopraccigliari sporgenti e per la mascella prognata, in parole povere per ciò che è "scimmiesco", forse non è una coincidenza, ma la chiave stessa della nascita della nostra specie.

Strane coincidenze...

Si tratta, ovviamente, solo e soltanto di una coincidenza. Ma se è vero che, per dirla con Poirot, "una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze somigliano a una prova", c'è di che pensare.
Il devastante terremoto che ha colpito il Giappone stamattina, 11 marzo 2011, si è verificato il giorno 11. Come l'11 settembre dell'attacco alle Torri Gemelle, come l'11 marzo degli attentati a Madrid.
Una scia di sangue legata proprio al numero 11, insomma, che sebbene sia solo pura casualità, ha già da tempo scatenato la fantasia degli autori di Hollywood. Essi, nel 2010, hanno creato un film horror incentrato proprio su questa strana coincidenza: "11.11, la paura ha un nuovo numero". 
Volendo dare retta alla NUMEROLOGIA, il numero 11 è da sempre portatore di sciagure. Il nome "Adolf Hitler", ad esempio, guarda caso ha 11 lettere. E "Manhattan", teatro dell'attacco alle Twin Towers, ha un nome che inizia con la lettera M, undicesima dell'alfabeto, che in quello ebraico corrisponde a "kaf" e, secondo calcoli cabalistici, rappresenta il numero 66 e il suo opposto, il 666 dell'anticristo. Pure le torri, a voler ben vedere, erano un enorme 11 nel cuore di New York... Tutte casualità, naturalmente. Perché se è vero che, secondo la profezia maya, il mondo deve finire il 21 dicembre 2012, l'11 non c'entra niente. Ma, allora, perchè sommando le cifre che compongono la data 21/12/2012, il risultato è 11?
Anche nel passato ci sono stati casi di coincidenze inquietanti. Nel 1839, Edgar Allan Poe scrisse una novella dal titolo: "Il racconto di Arthur Gordon Pym di Nantucket". La macabra storia narra del naufragio di una nave e della disperata sorte di alcuni marinai superstiti, rifugiatisi a bordo di una scialuppa di salvataggio. Nel racconto di Poe, gli uomini sono costretti, per sopravvivere, a nutrirsi del cadavere del più giovane del gruppo, un certo Richard Parker...
Quarantasei anni dopo, il 28 ottobre 1884, il Times di Londra riportò il naufragio della nave Mignonette che, partendo da Southampton, avrebbe dovuto raggiungere l'Australia. Ma il viaggio s'interruppe in alto mare e tre dei quattro marinai, trovata salvezza su una scialuppa, per sopravvivere furono costretti a nutrirsi del cadavere del più giovane dei loro compagni. E' spaventoso dirlo, ma quel ragazzo si chiamava proprio Richard Parker!
Un altro scrittore, un certo William Thomas Stead, nel 1892, diede alle stampe un racconto in cui narrava di una grossa e moderna (per l'epoca) nave a vapore, destinata al trasporto passeggeri e che affondava in pieno Atlantico in seguito allo scontro con un iceberg. I passeggeri venivano tratti in salvo da un'imbarcazione di nome Majestic.
Una nave con questo nome esisteva realmente a quell'epoca; si trattava di una nave della compagnia White star liner, comandata dal capitano Edward Smith. Quest'ultimo, nel 1912, sarebbe stato incaricato di comandare il transatlantico più famoso della storia, anch'esso affondato in pieno Atlantico in seguito allo scontro di un iceberg: il Titanic! Ma c'è di più. Lo scrittore Stead, come a volere sfidare la sorte, fu tra i passeggeri a bordo del Titanic nel suo viaggio inaugurale, che sarebbe stato anche l'ultimo sia per la nave sia per Stead...
Non può evitare d'affiorare alla mia mente la domanda scontata: "E se non si trattasse di semplici coincidenze?".

Fair trade

Appare ormai evidente come il sottosviluppo sia un problema legato quasi esclusivamente agli squilibri nella distribuzione mondiale della ricchezza economica e delle risorse naturali. Esso viene profondamente accentuato proprio dai processi di globalizzazione, all'interno dei quali i capitali si muovono liberamente sul pianeta, alla ricerca dei maggiori profitti laddove sia più agevole realizzarli. 
Peraltro, ancora prima d'essere un problema di rapporti tra Paesi, il sottosviluppo è un problema di rapporti tra classi sociali; nei Paesi del Sud del mondo é semplicemente di gran lunga superiore, rispetto a quelli del Nord, la percentuale della popolazione povera ed oppressa da meccanismi economici internazionali in cui la fanno da padrone le elites dominanti al Sud come al Nord. 
In un'ottica globalizzata è, tuttavia, semplicemente illusorio pensare che i problemi del Sud possano rimanere racchiusi all'interno degli stretti confini nazionali; gli "effetti boomerang" del sottosviluppo stanno già colpendo i Paesi ricchi e tenderanno a farlo in misura sempre maggiore. Facciamo tre esempi: 
a) - La massiccia immigrazione umana dal Sud al Nord del mondo non è altro che l'inevitabile conseguenza della miseria di quelle popolazioni e non può essere bloccata con semplicistiche politiche di chiusura indiscriminata delle frontiere. 
b) - Come non temere le conseguenze planetarie dei danni ambientali prodotti dallo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali del Sud? Pensiamo, per esempio, al disboscamento delle foresta amazzonica, in buona parte dovuto alla necessità di creare pascoli per mandrie di bovini destinati a finire sotto forma di hamburger sui tavolini delle note catene di fast-food del mondo; ma anche dovuta agli indios meticci, che non hanno con la foresta il rapporto simbiotico che avevano gli indios originari, e che incendiano la foresta equatoriale per coltivarci riso e soia ‎(il Brasile è il primo fornitore di soia alla Cina); purtroppo, dopo un anno il suolo non trattiene più i sottile strato di humus e diventa sterile. (NB. Fino a sette anni fa questa era la fine che faceva, ogni anno, una superficie di foresta pari a quella della Germania... Pare che adesso non sia più così, per fortuna, perché l'ONU dà al governo del Brasile ogni anno finanziamenti sufficienti affinché preservi la foresta). 
c) - Come non collegare la diffusione abnorme degli stupefacenti con la facilità che hanno le mafie di ogni latitudine a convincere i piccoli contadini afgani, marocchini e colombiani a coltivare papaver somniferumcannabis indica ed erytroxilon coca? Queste coltivazioni, infatti, rendono anche quaranta volte di piu rispetto a the, caffè e cacao, perché i prezzi di questi ultimi sono tenuti bassi dalle multinazionali di trasformazione, per poterci lucrare di più.
Per cercare di porre rimedio a questa situazione drammatica nasce, nel 1959, nei Paesi Bassi il cosiddetto: "Commercio Equo e Solidale" (CES) o faire trade. Il CES è una partnership economica tra consumatori del Nord del mondo e produttori del Sud, basata sul dialogo, sulla trasparenza e sul rispetto, che mira a una maggiore equità nel commercio internazionale. Non si tratta affatto di un ennesimo tentativo d'aiuti al Terzo Mondo, basato su elementi caritativi ed assistenziali. Si tratta, invece, di un vero e proprio cambiamento d'ottica nel modo in cui s'intende sistema economico. Tale "rivoluzione copernicana" economica si fonda sulla convinzione che sia necessario riequilibrare i rapporti tra Nord e Sud del mondo, spezzando i meccanismi di dipendenza, che impediscono ai Paesi poveri d'innescare autonomi percorsi di sviluppo. Si tenta di costruire, cosi, un'economia basata sull'etica, ma non estranea alla logica del profitto, purché questa mantenga al primo posto la dignità dell'Uomo e la salvaguardia della natura. Il CES, infatti, (dal sito www.cambieresti.it) tende a garantire:
a) - un prezzo equo, tale cioè da consentire ai lavoratori ed alle famiglie il soddisfacimento dei loro bisogni ed una vita dignitosa. Il prezzo è stabilito in accordo tra il produttore e l'importatore; 
b) - la dignità del lavoro, che vuol dire ambiente di lavoro salubre e non discriminazione sul lavoro di gruppi della popolazione (donne, disabili, caste inferiori) e non accettazione di sfruttamento minorile; 
c) - la democrazia nel processo lavorativo, in quanto i produttori sono, di solito, raccolti in organizzazioni attente alla partecipazione decisionale da parte di tutti i lavoratori;
d) - il prefinanziamento: al momento dell'ordine, l'importatore anticipa al produttore fino al 50 % del pagamento complessivo della merce, così da consentire ai lavoratori di far fronte alle loro esigenze, senza diventare ostaggio di usurai o intermediari locali, senza subire in pieno le oscillazioni dei mercati borsistici, senza vivere le incertezze legate alle difficoltà di collocazione delle proprie merci; 
e) - la sostenibilità dell'ambiente, poiché si privilegiano lavorazioni non inquinanti, basate su metodi naturali e dell'agricoltura biologica, evitando di ricorrere all'importazione di materie prime scarse e difficilmente riproducibili;
f) - la solidarietà, riferita a progetti di sviluppo non solo commerciali, ma anche a forte impatto sociale, di cui possa beneficiare tutta la comunità locale (es. scuole, strade, ospedali, corsi di formazione professionale e d'alfabetizzazione); 
g) - la trasparenza verso il consumatore, affinché sia consapevole ed informato su tutti i processi, sulla composizione del prezzo finale del prodotto che acquista (il prezzo trasparente) e sul progetto di sviluppo legato ad ogni prodotto. 
L'idea centrale del CES è, insomma, quella di garantire migliori condizioni di vita ai piccoli imprenditori agricoli ed artigiani del Sud del mondo, pagando i loro prodotti in modo equo (fino al 60 % in più rispetto ai prezzi di mercato). 
Uno degli snodi di questo circuito virtuoso è stato quello della nascita e della diffusione delle "Botteghe del Mondo", vale a dire negozi, piccoli e grandi, raccolti per la maggior parte nell'associazione omonima (sito Internet: (www.assobdm.it), che ne diffondono i prodotti nelle nostre città, ma anche in piccole località. Nel Comune di Milano le più importanti Botteghe del mondo sono le seguenti: Chico Mendes (via Padova 58; via Giambellino, 79; via Corsica, 45; corso San Gottardo, 16; via Taormina, 40; viale Sabotino, 13; via Canonica, 24; piazza Lima, staz. MM1; via Ollearo, 5),Cose dell'altro mondo (via Solari, 3), Nazca (via Breda, 54), Bottega del mondo del Pime (via Mosè Bianchi, 94), Mondo Alegre (via IV Novembre, 24). 
Che cosa si trova nei consorzi d'importazione del CES? Un'ampia gamma di prodotti alimentari, le cui materie prime provengono da Asia, Africa ed America Latina: dai tradizionali caffè, the, cacao, cioccolata, spezie e miele, ai frizzanti soft drink equi (cola, guaranà, mate); dai cereali (riso e quinoa) ai legumi (fagioli, soia); dai prodotti per prima colazione (biscotti, marmellate, muesli, succhi di frutta) ad innumerevoli snack, dolci e salati; dai funghi secchi alla frutta sciroppata; dalle banane ad una miriade di salse esotiche. Non mancano gli ingredienti della dieta mediterranea: pasta di grano e di farro, salsa di pomodoro, conserve di verdure delle Cooperative sociali agricole, vino (sia italiano che cileno).
Il CES si è dato un'identità precisa  stipulando, dopo un lungo percorso di  costruzione e condivisione delle regole comuni iniziato nel 1998, la "Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale", il cui ente depositario è l'Agices, (Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale) costituita formalmente nel 2003. La Carta, suddivisa in sette capitoli, definisce che cosa s'intende per commercio equo e solidale e sancisce una serie di impegni per importatori e distributori di ComES (il testo integrale della carta dei criteri, aggiornata nell'aprile del 2005, è disponibile sul sito (www.agices.org). Agices ha fra i suoi scopi quello di costituire e gestire il "Registro italiano delle organizzazioni di ComES" (RIOCES), con l'obiettivo di stabilire un rapporto rigoroso e trasparente con i produttori-partner, con l'opinione pubblica,   con le istituzioni e con i consumatori. La carta dei criteri, ad oggi, è stata sottoscritta da tutte le centrali d'importazione italiane e da un alto numero di Botteghe del Mondo.
Il CES sembra uno dei pochi settori in crescita costante a discapito della crisi economica. E’ ciò che rivela un rapporto di Agices, in occasione della conferenza internazionale Prodotti o persone. Il Commercio Equo e Solidale in Europa va dalla parte giusta? che si è conclusa il 24-06-2009 a Roma. L’Agices registra cifre da record a partire dal numero dei soci e dei volontari: quasi 26 mila le persone socie di organizzazioni iscritte al Registro Agices (cinquemila in più rispetto all’edizione del 2005) e nel 2007 oltre seimila persone hanno dedicato il proprio tempo e la propria passione per sostenere la crescita del progetto equosolidale. E per molti, ormai, non si tratta solo più di volontariato: le associazioni che si occupano di CES danno lavoro a circa 1000 persone in tutta Italia, 621 donne (64 %) e 346 uomini (36 %). Ma vediamo i numeri delle vendite: le organizzazioni iscritte al Registro Agices hanno acquistato merci destinate alla vendita per oltre 46 milioni di euro, una quota sostanzialmente invariata rispetto al 2005, e hanno venduto al dettaglio, nel 2007, oltre 23 milioni di euro di prodotti equosolidali (18 milioni nel 2005).
Questi dati confermano che i consumatori stanno imparando a conoscere le attività e i prodotti del settore equosolidale, un tempo considerati di nicchia perché troppo costosi. 
Il consorzio Ctm-Altromercato (www.altromercato.it) ha portato i prodotti del CES sugli scaffali della catena di Esselunga e di quelle IperCoopConadBilla (e più di 100 supermercati del Trentino appartenenti alle catene Sait e Poli). I supermercati Coop e moltissimi altri hanno scelto i prodotti di CES certificati da Transfair (l'elenco su   www.transfair.it). Il biologico è presente in tutti i maggiori magazzini della Grande distribuzione organizzata, ma il primo     supermercato della natura è nato a Verona, nel 1992. Si chiama "NaturaSì" ed ormai ci sono decine di negozi (per avere una lista completa dei centri vendita, cercate su www.naturasi.it).