sabato 30 aprile 2011

Scienza e democrazia

Alla vigilia delle ultime elezioni politiche scambiai una serie di opinioni con un esimio Professore universitario riguardo la democrazia e la scienza. 
Ricordo che tutto partì dalla sua domanda secca: “Lei andrà a votare?”. Risposi di sì e subito capii dallo sguardo del Professore d’avere perso parte della sua stima, poiché già conoscevo le sue idee politiche. Così, con una scusa banale chiesi gentilmente di rimandare la discussione, scrissi la lettera qui riportata integralmente e la imbucai nella cassetta delle lettere dell’esimio interlocutore. Il lato bizzarro della situazione è che il Professore ed io… siamo vicini di casa! 

Egregio professore, 
Le scrivo questa mia con la speranza che voglia degnarsi di leggere le mie idee circa la politica e la società, senza né la fretta né la stanchezza che possono, a volte, guastare la comunicazione verbale…
Qualche settimana fa, come Lei ricorderà, a un certo punto della nostra discussione mi domandò se io avrei votato alle elezioni politiche. Le risposi che l’avrei fatto, perché era un dovere civico sancito dall’art. 48 della Costituzione. Ero a conoscenza che, rispondendo così, avrei perso parte della Sua stima, ma avevo in mente le belle parole dell’On. Piero Calamandrei: “Dietro ad ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi: caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento... morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”. Ecco perché sono andato (ed andrò sempre) a votare. 
Ammetto, altresì, come sia chiaro l’aspetto compromissorio della nostra Carta costituzionale del 1948. Infatti, il riconoscimento del valore dell’individuo si accompagna alla ga¬ranzia dei gruppi organizzati, senza che ne siano prescritte le regole di funzionamento interno; la diffidenza verso il momento pubblico statale, e quindi i meccanismi per neutralizzarne l’azione, si accompagnano alla previsione di compiti di trasformazione sociale ed economica e di strumenti operativi in tal senso. 
E’ così spiegabile come la nostra Costituzione sia stata, di volta in volta, sottoposta ad interpretazioni parziali, che ne sollecita¬vano alcuni aspetti a danno di altri, se¬condo i momenti e le necessità po¬litiche dei diversi soggetti agenti sul pia¬no costituzionale. Si è sottolineata più volte l’esigenza di un’interpretazione complessiva ed equilibrata della Costituzione; recentemente, come sappiamo, quest’esigenza si è espressa auspicando la formazione di una “conven¬zione interpretativa” della Carta, analo¬ga alla “convenzione formativa” della stessa. Staremo a vedere… 
Io credo che la democrazia e le leggi costituzionali, ossia le leggi che reggo¬no il potere, diano all’uomo un posto nella società, che influenza la concezione ch’egli ha del suo posto nella natura e, dunque, la sua visione generale del mondo. Prendiamo l’esempio dell’antica Ellade. Come Lei sa, le culture della Mesopotamia, dell’Egitto e dell’Ellade formano un insieme piuttosto coerente, che sta alla base della cultura (scientifica e non) occidentale. Le discipline “prescientifiche” mesopotamiche ed egizie, però, non rimettevano mai in discussione la visione globale del mondo e dell’uomo data dal mito. I tentativi ellenici, invece, sia che interessassero un ambito preciso, sia che fossero filosofie più generali, avevano sempre qualcosa a che vedere con il posto dell’uomo nel mondo. 
Sono assolutamente convinto che questa differenza fosse causata dal fatto che il posto dell’uomo nella società ellenica non era confrontabile a quello ch’egli aveva in Mesopotamia ed in Egitto. I Mesopotamici e gli Egizi, infatti, non conoscevano altro che le leggi con le quali il potere regge la società (sempre che tale potere non fosse arbitrario tout-court). La Democrazia, invece, nel dare alla società le sue leggi proprie, può far propendere per la ricerca nella Natura di un ordine che le sia proprio, un ordine “naturale”, appunto, accessibile all’uomo e non più divino. 
Per comprendere come il pensiero scientifico abbia potuto costituirsi in Occidente, bisogna aggiungere ad attività prescientifiche come il mito, la magia e la tecnica, anche il diritto e l’organizzazione della società. Infatti, similmente in questo al mito ma al contrario della tecnica, la scienza è dipendente dalla concezione che l’uomo si fa del mondo; la quale dipende, spesso, dalla concezione ch’egli si fa della società. Allora, diciamo pure, con Churchill: “La Democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora”. 
Il problema pratico e non aprioristico è, semmai, che il rispetto da parte di tutti della decisione collettiva che raccoglie il maggior consenso (l’essenza della Democrazia) ha biso¬gno di un impianto concreto per essere realizzato. Spesso, però, le regole studiate per tale scopo possono determinare risultati in forte contrasto tra loro (pur se, teoricamente, sempre “de-mocratici”). L’esempio più clamoroso, e probabilmente più noto, è l’a¬dozione del sistema elettorale maggioritario, in contrapposizio¬ne a quello proporzionale; a tale riguardo, non può non far riflettere il fatto che in Gran Bretagna un partito politico, forte di circa il 30 % dei consensi, a causa del meccanismo elettorale prettamente maggioritario in uso in quel Paese, non riesce a far eleggere un suo parlamentare dal 1950… Una soluzione ci sareb¬be: invece d’essere costretti a votare per un “sì” o un “no” secco, si dovrebbe avere la possibilità d’esprimere il proprio parere, in termini percentuali, in base ad una scala di attribuzioni analoga alla seguente: 
0%: “no” netto 
dall’1% al 49%: propensione al “no”, con riserve più o me¬no forti; 
50%: totale incertezza tra “sì” e “no”; 
dal 51% al 99%: propensione al “sì”, con riserve più o me¬no forti; 
100%: “sì” netto. 
Se la somma dei valori percentuali (divisa per 100) supera la metà del numero dei presenti, la proposta è approvata, altri¬menti non lo è. È curioso osservare come la categoria del dubbio, così esaltata da schiere di filosofi da Socrate in poi, non sia mai stata adeguatamente considerata nei momenti decisionali, lasciando il campo (in nome della Democrazia?) ad una malsicura certezza. 
Un'altra difficoltà tecnica della democrazia è illustrata dal paradosso di Condorcet, che è relativo ai problemi che sorgono quando, fra tre alternative possibili (che riscuotono una preferenza pressoché uguale), non si riesce a determinare tecnicamente la scelta da adottare. Anche se gli storici non dicono nulla a riguardo, ritengo plausibile ipotizzare che, per elaborare il proprio paradosso, Condorcet si sia ispirato ad uno dei più laceranti dilemmi del primo periodo della Rivoluzione francese: la sorte che doveva toccare al re Luigi XVI ed alla sua consorte Maria Antonietta d’Asburgo Lorena. I fatti, in linea di massima, dovrebbero essersi svolti come qui di seguito riferisco. 
Il neonato Comitato di salute pubblica, formato da Robespierre, Marat e Danton, doveva sottoporre alla Convenzione Nazio¬nale la sua proposta relativa alla condanna della famiglia reale. Vi erano tre alternative, ciascuna caldeggiata da uno dei mem¬bri del Comitato: Robespierre propendeva per l’esecuzione sia del Re che della Regina; Marat voleva la ghigliottina solo per il Re; Danton riteneva più giusto non applicare la pena di morte. La ricerca di una soluzione fu lunga e faticosa, in quanto cia¬scuno dei tre aveva una propria ulteriore preferenza subordina¬ta. In particolare: Robespierre avrebbe rinunciato alla sua tesi, purché fosse condannato almeno il Re; Marat, che temeva fortemente le reazioni dell’Austria, voleva assolutamente salvare la vita alla Regina ed era, perciò, dispo¬sto anche a salvare il Re; Danton non amava le soluzioni di compromesso, e quindi, se si fosse deciso di ricorrere alla pena di morte, avrebbe rite¬nuto più giusto applicarla sia al Re che alla Regina. Come è noto, il 17 gennaio 1793 fu sottoposta alla Convenzio¬ne Nazionale la proposta di condannare a morte solo il Re (quella che stava più a cuore a Marat); l’assemblea si pronunciò a favore e la condanna venne eseguita quattro giorni dopo. Fu Robespierre che rivelò a Condorcet i particolari della di¬scussione, che portò a quella storica scelta. 
Per superare lo stallo iniziale, Marat propose di votare subi¬to tra le due proposte più distanti, ossia: E) giustiziare entrambi i reali; N) non giustiziare né l’uno, né l’altra. La proposta che avrebbe vinto sarebbe stata poi messa a con¬fronto con la terza, ovvero: R) giustiziare solo il Re. Danton e Marat votarono per la non applicazione della con¬danna completa e Robespierre rimase in minoranza, unico a votare per l’esecuzione di entrambi; tale decisione venne, quindi, scartata. Ma quando si trattò di scegliere tra la condanna del Re e la non applicazione della pena di morte, fu Danton a rimanere in minoranza. Infatti, la decisione di giustiziare il Re rappresentava la prima scelta per Marat e la scelta subordinata per Robespierre (la cui prima scelta era stata scartata). 
Condorcet spiegò a Robespierre il marchingegno con cui Marat aveva pilotato la decisione. Tre alternative si presenta¬vano, per ciascuno dei tre membri del Comitato di salute pub¬blica, in un preciso ordine di preferenza, ciclico. 
(Per maggiore praticità, nel seguito utilizzerò le seguenti ab¬breviazioni: E = giustiziare Entrambi; R = giusti¬ziare solo il Re; N = non giustiziare Nessuno.) 
Robespierre: 1) E, 2) R, 3) N. 
Danton: 1) N, 2) E, 3) R. 
Marat: 1) R, 2) N, 3) E. 
Questa graduatoria tra le alternative, sulla base degli interventi effettuati nel corso della discussione, si poteva supporre nota a tutti. Ora, qualunque fosse stata l’alternativa lasciata per ultima, essa avrebbe sicuramente vinto. Se, infatti, Robespierre avesse proposto, ad esempio, di sce¬gliere prima tra R o N, la sua preferenza avrebbe sicuramente vinto. Infatti, per N avrebbe votato solo Danton, mentre Marat avrebbe votato R (prima scelta), così come Robespierre (seconda scelta). Alla resa dei conti finale, il voto di Danton, eliminata la sua alternativa prefe¬rita, sarebbe confluito su E, aggiungendosi al voto di Robespierre e lasciando il solo Marat a votare per R. Ugualmente, se si fosse scelto prima tra E ed R, alla fine avrebbe ottenuto la maggioranza N. 
Il paradosso di Condorcet mostra, quindi, chiaramente come l’esito di una votazione possa essere pesantemente influenzato dalla modalità con cui la stessa viene organizzata. Quando, in presenza di tre mozioni contrapposte e d’incerto esito, la presidenza di un’assemblea propone, con le più svariate argomenta¬zioni, di mettere prima ai voti due di esse, possiamo essere certi che è la terza quella preferita. D’altra parte mettere ai voti tre mozioni contemporanea¬mente e considerare approvata quella che riporta più voti ri¬schia, in alcune occasioni, di snaturare ancora più profonda¬mente la volontà dell’assemblea. Supponiamo, infatti, che su 100 elettori 40 siano favorevoli al mantenimento di un documento e gli altri 60 favorevoli ad un emendamento (E1). L’aggiunta di un ulteriore emendamento (E2), con ogni probabilità, dividerebbe il fronte dei contrari al testo presentato e potrebbe portare ad un risultato del tipo: 40 favorevoli al testo, 35 all’emendamento E1, 25 all’emendamen¬to E2, con il risultato che, nonostante la volontà della maggio¬ranza sia di emendare il testo, questo rimarrebbe in vigore. Non è, in queste situazioni, peregrino il sospetto che l’emen¬damento aggiuntivo possa venire proposto addirittura da un fautore del mantenimento del testo che, per salvare le apparen¬ze e non scoprire le sue carte, poi voterebbe l’emendamento stesso, levando un voto alla sua parte, ma consentendo quella divisione tra gli oppositori che permette, comunque, la vittoria altrimenti impossibile per la sua fazione. 
Il Teorema dell'impossibilità di Arrow, formulato nel 1951, ha lo scopo di trovare un sistema di votazione che eviti il paradosso di Condorcet e consenta, dunque, di preservare l'ordine lineare delle preferenze (se A vince su B e B vince su C, allora A deve vincere su C). Il teorema di Arrow afferma che, se il gruppo di cittadini votanti comprende almeno due individui e l'insieme delle alternative possibili comprende almeno tre opzioni, risulta impossibile la Democrazia rappresentativa basata sui principi che, solitamente, sono considerati alla base della Democrazia stessa e cioè: uguaglianza dei voti, univocità della scelta e certezza del risultato. 
Tuttavia, prendendo spunto dal teorema di Arrow, Amartya Sen dimostra che, in uno Stato che voglia far rispettare contemporaneamente l’efficienza liberista e la libertà (uno spazio in cui le sole preferenze dell'individuo determinano la scelta) possono crearsi delle situazioni in cui un solo individuo (il dittatore) ha garanzia dei propri diritti. Sen dimostra, dunque, matematicamente l'impossibilità del liberismo basato sull'efficienza. Aggiungo, però che Sen ha ricevuto il Nobel proprio per aver sviluppato una teoria sociale scevra dal suo stesso paradosso. 
Ancora una volta dobbiamo riconoscere il valore della logica e difendere quei sistemi costituzionali che permettono al cittadino d’esprimere la sua logica parlando liberamente, sia in privato sia in pubblico. 
In conclusione, egregio professore, spero di non averLa troppo annoiata e colgo l’occasione per porgerLe i miei più distinti e rispettosi saluti. 

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